Gli scritti qui raccolti ripropongono il percorso di una singolare figura di intellettuale militante quale è stato Giuseppe Trotta nel corso della sua breve vita pubblica. Un senso acuto delle discontinuità storiche e politiche, il disincanto di una mente lucida e affilata unito a una disponibilità quasi disarmata di fronte alle provocazioni più radicali, specie di matrice evangelica, l’urgenza di informare e orientare una platea di interlocutori circoscritta ma assai differenziata convergono in ciascuno di questi testi, spesso brevi, sempre sorprendenti. A partire dall’asserita, e sofferta, inconciliabilità tra mondo e vangelo, storia ed escatologia, l’autore si sofferma con autentica pietas sulle testimonianze di fede che una qualche distensione umana pure hanno assunto: un’espressività e visibilità riconosciute, un significato vissuto e condiviso anche dai più semplici. Da Simone Weil alla santa Teresina, da don De Luca a don Milani, da Sturzo a Dossetti, gli scritti di Trotta accompagnano il lettore nella riscoperta del paradosso sempre sconcertante dell’esperienza credente.
Rapporto singolare, quello fra gli italiani e la Bibbia. Al tempo stesso intenso ma distaccato, frequente ma intermittente, competente ma lacunoso. Rapporto singolare anche perché è la Bibbia stessa un’opera letteraria sui generis, pervasiva, universale e insieme specifica. Tuttavia l’analfabetismo biblico di cui parlano i sondaggi preclude la comprensione di numerosi aspetti della vita quotidiana di molti paesi di antica cristianità, compreso il nostro. Come interpretare sculture e immagini che popolano città e campagne, capire espressioni e modi di dire del linguaggio popolare e colto, muoversi tra calendari e feste, se si è privi dell’alfabeto che li ha generati e nutriti? E come auspicare l’interazione e la convivenza con quanti provengono da altri mondi religiosi, se chi dovrebbe accoglierli non è in grado di spiegare ciò che è all’origine dei propri usi e costumi? Si tratta di domande né marginali né neutre nell’attuale quadro sociale nazionale. Di tutto questo si è discusso in occasione del sesto convegno annuale della Fondazione Pietro Lombardini per gli studi ebraico-cristiani. Ne è uscita la conferma del fatto che, al contrario di quanto è accaduto in Francia e in Germania in ambito evangelico, in Italia la Bibbia si è mantenuta purtroppo poco più di un oggetto misterioso.
Quando il 22 dicembre 1977 il segretario di Stato del papa Jean-Marie Villot scrisse all’arcivescovo di Parigi François Marty a nome di Paolo VI, citò Jules Isaac definendo il suo lavoro «una fonte di ispirazione per tutti gli uomini di buona volontà che cercano di promuovere il rispetto reciproco, la stima e l’amicizia tra ebrei e cristiani». Questa autorevole considerazione nasce anche dall’influenza che il pensiero di J. Isaac ebbe nella stesura del paragrafo sugli ebrei della dichiarazione conciliare Nostra aetate. Le pagine di questo libro ripercorrono il modo in cui la chiesa cattolica sia arrivata a chiarire e ad abbracciare il ruolo di Israele nella storia della salvezza, a superare il concetto della colpa collettiva degli ebrei per la morte di Gesù e a offrire una nuova visione teologica e un nuovo atteggiamento pastorale nei confronti degli ebrei e dell’ebraismo. Nel farlo Norman C. Tobias ricostruisce la biografia di Jules Isaac, un pioniere del dialogo ebraico-cristiano, una delle persone a cui si deve il rinnovamento della riflessione cattolica sugli ebrei e sul giudaismo dopo secoli di incomprensioni.
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